Hannah Arendt è stata tra le prime autrici, nell’ambito della filosofia politica, che io abbia incontrato durante il mio intero percorso accademico.
Nacque ad Hannover nel 1906, da una famiglia ebrea; fu costretta a fuggire dalla Germania nazista per trovare rifugio prima in Francia e poi negli Stati Uniti, dove insegnò in varie prestigiose università (fu la prima donna professore). In Germania ebbe come insegnanti Heidegger (con il quale intrecciò anche una relazione amorosa) e Jaspers.
Ebrea e apolide, in un mondo in cui la cittadinanza rappresentava (rappresenta ancor oggi, a dire il vero) la condizione principale per poter definire l’individuo all’interno della società, il suo status sembrò privarla non solo dei diritti politici, ma anche degli stessi diritti universali dell’uomo. Ebbe il coraggio di rivalutare la condizione di apolide, definendola come un punto di vista privilegiato per capire la politica, campo nel quale, secondo la sua visione, sarebbe stato possibile realizzare le aspirazioni più elevate degli uomini.
A dispetto della sua formazione accademica (di stampo filosofico) e della natura della sua produzione letteraria, lei rifiutò l’appellativo di “filosofo”, definendosi una “teorica politica”. Secondo il suo pensiero il bene politico più prezioso risiede nella “libertà”; la politica autentica è quella che può definirsi realmente libera.
In tal senso la Rivoluzione francese fu una rivoluzione mancata, per la Arendt, perché occupandosi dei bisogni delle persone povere, finì per perdere la strada verso la libertà, cioè la strada che avrebbe condotto alla creazione di istituzioni atte al formare cittadini liberi. La Rivoluzione fallì perché i giacobini si fecero trasportare dai bisogni e dalle necessità, perdendo di vista i principi politici che avevano innescato la miccia rivoluzionaria – anche Kant la pensava in questo modo. L’errore dei rivoluzionari è stato quello di subordinare la “politica” (plurale/innaturale) al “bisogno” (individuale/naturale).
Al contrario, la Rivoluzione americana ebbe successo proprio perché in prima linea era posta la volontà di creare istituzioni volte alla determinazione di uno Stato libero e, dunque, di cittadini liberi.
Il concetto di libertà della Arendt ha a che fare con l’azione, la cui massima espressione risiede nell’occuparsi della cosa pubblica (Res publica). Infatti è principalmente all’interno dell’arena politica che l’uomo, ci dice la Arendt, può entrare in contatto con gli altri uomini, mettendo autenticamente in gioco le proprie opinioni (doxa), qualificandosi come “essere non interscambiabile della specie”.
Necessità e libertà sono due concetti tra loro opposti, per la Arendt; e agendo politicamente l’uomo è in grado di esprimere in pieno la libertà, distinguendosi così dagli altri individui (in tal senso mi viene in mente il famoso elogio funebre di Pericle, il suo ultimo discorso ad Atene prima di morire di peste nel 429 a.C.).
La politica, per Hannah Arendt, si configura dunque come parte di un mondo innaturale e l’azione politica è ciò che permette di disinnescare la ripetitività degli atti che hanno il mero compito di soddisfare i bisogni e le esigenze biologiche degli individui.
Interessante è anche la sua posizione sul concetto di “bontà” (il suo pensiero è qui in antitesi con quello di Rousseau). La compassione, che è una forma di bontà per la Arendt, risiede nel cuore degli uomini, dunque è un’emozione privata e non può portare alla creazione di uno spazio pubblico (inteso in senso politico, naturalmente). La bontà ha il talento di livellare le differenze, rende tutti gli uomini uguali, ponendoli su di uno stesso piano, elimina cioè lo spazio plurale. La pietà e la compassione sono sentimenti rischiosi da mettere in campo in politica. Per la Arendt, dunque, è estremamente importante distinguere elementi di carattere sociale da elementi di matrice politica. Sull’argomento mi viene in mente l’Antigone di Sofocle, tragedia dove il re Creonte sembra ben ricalcare l’immagine di una autorità super-partes, che non si lascia influenzare dai sentimenti personali; la politica non vuole moralità alcuna, se non la propria.
“Spontaneità” è un’altra delle parole chiave spesso usate dalla Arendt. Abbiamo visto come l’azione politica abbia il pregio di fornire distinzione, cioè di distinguere gli individui, permettendo loro di venire ricordati. La politica è altresì contingenza e la spontaneità dell’azione ha il merito di riscattare l’uomo dal suo stato biologico naturale.
La Arendt vuole dimostrare che l’azione autentica non deve avere uno scopo preordinato, l’azione deve sempre essere un gesto spontaneo; l’azione stessa assume il ruolo di scopo.
È questa, in estrema sintesi, la filosofia politica di Hannah Arendt, un pensiero influenzato fortemente dalla filosofia antica, quella di Platone e di Aristotele su tutte (forse anche per questo mi sento particolarmente vicino all’autrice).
Il mio consiglio è quello di leggere “Vita Activa”, dove vengono spiegati in maniera più che esaustiva tutti i temi qui toccati da me; e “Le origini del totalitarismo”, probabilmente il capolavoro di Hannah Arendt.
“La banalità del male” è quasi sicuramente il suo libro più famoso. È il testo dove racconta del “processo Eichmann” tenuto a Gerusalemme nel 1961; la Arendt, che in quel periodo collaborava con alcune testate giornalistiche statunitensi, fu inviata dal New Yorker come reporter. La sua cronaca del processo fu estremamente condannata dall’establishment ebraico; il motivo risiedeva nell’atteggiamento ritenuto troppo morbido nel descrivere l’imputato nazista (un uomo terribilmente normale), da parte della Arendt.
Hannah soffrì moltissimo per le dichiarazioni dei massimi esponenti della comunità ebraica. Questo fu un esempio ulteriore che ben spiega la morale arendtiana: il suo intento, infatti, fu sempre quello di conoscere e di capire senza farsi influenzare dai sentimenti particolari, dalle sue emozioni.
Una deontologia kantiana in piena regola.