Avevo circa vent’anni, secoli fa. Mi avevano invitato a una festa universitaria a Milano e fino all’ultimo ero indeciso se andarci. Alla fine, decisi di prendere il treno per raggiungere i miei compagni. Era sera, intorno alle 20:30. Il treno stava per arrivare e, passando davanti al piccolo bar vicino alla stazione, vidi la barista che mi piaceva. Non trovai il coraggio di entrare, dicendomi che avrei perso il treno, ma la verità è che mi mancava la determinazione. Proseguii verso la stazione, e lì vidi un ragazzo con un enorme mazzo di rose in mano. Non ci volle molto a capire che non erano destinate a una fidanzata, lui le vendeva.
Lo fermai, con l’idea di comprare una rosa, pagargliela un po’ di più e fargliela consegnare alla barista. Un pretesto, pensavo, per tornare nei giorni successivi e attaccare bottone. Ma le cose si complicarono subito: il ragazzo non capiva quasi nulla di quello che dicevo. Provai più volte a spiegargli, ma non ci fu verso. Alla fine rinunciai, pagai la rosa senza prenderla e mi diressi verso il binario. Salito sul treno, mi sedetti, e il ragazzo con le rose si sedette di fronte a me. Anche lui aspettava lo stesso treno, ma sarebbe sceso a Novara, non a Milano. In quel quarto d’ora, riuscimmo a comunicare un po’, a conoscerci. Veniva dallo Sri Lanka, aveva una moglie e due figli, che non poteva permettersi di portare qui. Li aiutava spedendo loro gran parte dei suoi guadagni, quelli ottenuti vendendo rose.
Prima che scendesse, gli comprai un’altra rosa. Da allora ci vedemmo spesso: io uscivo con gli amici nel weekend e lui frequentava gli stessi locali, sebbene con un altro ruolo. Ogni volta scambiavamo qualche parola, un sorriso, e alla fine gli compravo una rosa e gli offrivo da bere. Era diventato un piccolo rito, durato anni. A tal punto che posso dire che fossimo diventati più amici che semplici conoscenti, nonostante i nostri incontri si limitassero a quei pochi minuti di conversazione. Lui conobbe le mie fidanzate, e mi vide invecchiare, proprio come io vidi i suoi capelli farsi grigi. Sempre con quel sorriso, sempre con quel mazzo di rose vivaci in mano.
A volte lo vedevo scendere dal treno a Milano, di certo andava a rifornirsi di rose da vendere la sera a Vercelli, nelle pizzerie, nei bar, nei ristoranti, ovunque ci fosse una coppia, i single difficilmente compravano fiori. Tranne me, naturalmente: ero diventato un cliente affezionato. Per un periodo lo vidi in compagnia di un “collega”. Durò un paio d’anni, poi il collega sparì. Mi raccontò che era stato assunto come magazziniere all’Esselunga di Novara. Me lo disse con uno sguardo che rivelava un velo di rammarico, forse un misto di tristezza per essere rimasto solo e di invidia per non aver ottenuto lui quel lavoro.
Passarono anni senza vederci. Io mi persi nel lavoro, mi sposai, nacque mia figlia… Chi ha più tempo di uscire ormai? Ma ieri, mentre tornavo dalla lavanderia, ho deciso di fermarmi in un bar vicino a casa per un caffè. Sono entrato, ho ordinato il solito macchiato caldo, ed ecco che entra lui. Si avvicina al bancone e porge una rosa alla barista, che in cambio gli dà una banconota. È un rituale che, ne sono certo, si ripete spesso. Poi si gira e i nostri sguardi si incrociano. Nonostante gli anni, ci riconosciamo. Ci sorridiamo, ci abbracciamo, il suo italiano è molto migliorato. Scambiamo poche parole, nulla di davvero significativo. Gli compro la “solita rosa”, lui mi ringrazia. Poi lo saluto e esco dal bar per tornare a casa.
Mentre cammino, penso a questo ragazzo che conosco da più di vent’anni, lontano dalla moglie e dai figli. Chissà se alla fine è riuscito a portarli qui. Ormai i suoi figli saranno uomini, forse hanno deciso di raggiungerlo, o magari hanno preso altre strade.
Ripenso a quel ragazzo anche lui poco più che ventenne, con le rose in mano, che non capiva cosa volessi da lui quella sera davanti alla stazione, e lo vedo ora, con i capelli color argento, proprio come i miei, parlare un italiano che non è mai diventato del tutto fluente, come se il tempo vissuto qui non fosse bastato. Mi accorgo solo ora di non sapere nemmeno il suo nome, e lui non conosce il mio. Eppure, conosco una parte intima della sua vita: il volto di sua moglie, dei suoi bambini. Non so il nome, quel dettaglio che ci rende identificabili al mondo. Forse è proprio questa assenza che ci ha legati, io e il mio caro amico fioraio, senza nome, ma con una vita che probabilmente ha avuto senso proprio grazie al volto di chi ha amato.
Penso all’immagine contrastante: qualcuno con dei fiori in mano, felice per un momento così diverso dal solito, e lui, che ha vissuto la sua vita trasportando rose, invecchiando giorno dopo giorno, ma solo per venderle, non per altro. E penso a me, alla mia vita, alle occasioni afferrate e a quelle lasciate andare, e a come, a volte, basti spostare lo sguardo di poco per trasformare ciò che consideriamo un bene in un male, e viceversa. Siamo gettati in questo mondo e viviamo in una consapevolezza che ci appare reale, ma che non è altro che una convenzione, un modo per sentirci a nostro agio all’interno del gruppo cui apparteniamo, senza doverci porre troppe domande. Ma questo stesso modo di vivere spesso ignora l’unicità che ci distingue.
Alla fine, le cose che mi infastidiscono, il lavoro che mi stressa e i piccoli problemi quotidiani mi appaiono, in questo momento di riflessione, così insignificanti. Basta un semplice cambio di prospettiva per scorgere, dietro il muro, una pianta, o accanto alla panchina, una fontana. E quel cambio di prospettiva dona un senso differente, rinnovato alla scena che abbiamo davanti.
Ora sento forte il desiderio di chiedergli il suo nome, non perché conoscerlo cambierebbe qualcosa tra di noi, ma perché quel nome rappresenta la sintesi di tutto ciò che ho scritto, e ogni volta che lo chiamerò per nome, sarà come rievocare tutto il resto.